Nota di avvertenza

Cari lettori,
questa favola si ispira
a una storia Vera!!!


Bloccandoci per l’Autostrada,
ci fecero transitare sulla circonvallazione,
intravedendo dal fondo questa situazione,
e regalandoci indirettamente l’ispirazione...
 
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Oggi non è che un giorno qualunque
di tutti i giorni che verranno,
ma ciò che farai
in tutti i giorni che verranno
dipende da quello che farai oggi.”
                                   HEMINGWAY

Introduzione


Andare allo zoo con lo sguardo di una bimba significa sorridere, sempre e comunque, al di sopra di ogni regola e al di là di ogni sospetto.
Alla base del sorriso di una bimba allo zoo c’è quell’istinto di base non ancora contaminato dallo zoo fuori dallo zoo: il nostro mondo.
 
E ti accorgi allora che non sei tu ad accompagnare lei, ma è lei che ti accompagna, ti tiene per mano per un po’, ti sfugge via, affascinata ora qua e ora là, e poi ritorna a te, a ricreare quel sorriso oggi tanto incompreso e dimenticato, e del quale abbiamo un urgente ed estremo bisogno per essere liberati dalle nostre gabbie quotidiane, invisibili, ma potenti, e che ci rendono sempre più prepotenti a noi stessi e incapaci di sorridere a questa nostra fragile e fugace vita.
 
Lo zoo...che a noi rappresenta e ci ripresenta la bellezza della nostra fragilità, chiusa negli schemi della logica e nel rifiuto di ciò che sta oltre i nostri sensi.
E non avrebbe senso andarci, in effetti, se non con l’ausilio e il supporto del nostro viaggio: questa piccola bimba, che sorridendo trasforma l’atmosfera del già noto e del dato di fatto in un’avventura nel mondo dell’ignoto, per far risorgere dal nostro istinto animalesco lo spirito della bellezza, fatto di umiltà, semplicità, naturalezza, e soprattutto: sorriso.
 
Ed eccolà là, già pronta e ardente di gioia, all’ingresso, a richiamare me e voi a visitare, finalmente, la meta tanto attesa e desiderata…
 
Eccoci, eccoci…Arriviamo!…
 
 

Alla Biglietteria


Mentre mi accingo ad acquistare i biglietti,
lei mi richiama strattonandomi per la camicia:
“Guarda che io non posso entrare…” e io subito la interrompo: “Come non puoi entrare? Non vedi che prendo i biglietti?...” e termino l’operazione, incamminandomi verso la sbarra dell’entrata.
Ma lei si è fermata indietro, e quando la richiamo, ammutolisce il suo sorriso e mi guarda con occhi tremolanti.
“Che c’è? Cos’hai?...” e con la mano la invito a procedere.
Ma lei, lì, ferma, quasi bloccata, un po’ tra l’incantata e l’incatenata, e non si muove.
Torno suoi miei passi, mi chino verso di lei:
“Qual è il problema? Non sei contenta di essere qui? Non ci tenevi tanto a venire?...E adesso, che fai?...”.
E lei, facendo rinascere pian piano il sorriso, sussurra: “Guarda che io non posso entrare così…Devo entrare ed essere una di loro, devo sentirmi una di loro…”.
Mi raddrizzo, mi mostro pensieroso e mi accarezzo il mento, come a pensare a una soluzione…
Ma poi, mentre penso, mi accorgo - sempre dal suo crescente sorriso – che lei ha già soluzione e risposta al suo problema, e occorre ora solo la mia approvazione.
“Quindi…?” e la invoglio a esprimersi.
“Sarò una rana – riprende lei colmando il suo sorriso – così potrò stare un po’ vicina a te e un po’ vicina a loro, proprio come la rana: un po’ sulla terra, un po’ nell’acqua!”.
Non sapevo che dirle, a questo punto, se non approvare in rispettoso silenzio quella sua scelta tanto fantasiosa e sorprendente, e allo stesso tempo concreta e risolutiva.
E varcammo la sbarra tra i due mondi: tra quello di ogni giorno, e quello di oggi, qui e ora: il mondo dello zoo.
 
Fra l’altro io il biglietto non l’ho pagato, in quanto sacerdote.
Non so perché, ma mi avevano detto che i preti non pagavano l’ingresso.
Forse per rispetto…o per far sì che si portasse un giorno la comunità, o un gruppo…o per chissà che altro.
Sta di fatto che già quella differenza mi faceva pensare che lei, pagante, stava vivendo in un modo gratuito e libero da ogni condizionamento quel momento; io, non pagante, non sono ancora in grado di godermi questo momento speciale con lo spirito di questa gioiosa e giocosa bimbetta.
Il tornare bambini – nell’animo – quanto è difficile!
E mentre sto pensando a tutte queste cose, lei intanto è già alle prime gabbie a parlar con gli animali…
Che differenza tra quel suo e questo nostro mondo!
Lasciar esprimere…
 
Come educatori, ci sentiamo superiori, responsabili, in dovere di…
E facciamo tutto il possibile per far crescere ed educare, ma a modo nostro…
A modo vecchio, per un mondo vecchio e al tramonto.
Educhiamo con spirito di dovere, non con l’anima dell’amore.
Educhiamo a un tramonto, in una parola: alla morte.
Lasciar esprimere è educare alla vita, a un mondo rinnovato.
Ma non abbiamo tempo, forse perché non abbiamo il senso.
Abbiamo tutte le voglie di questo mondo, e le trasmettiamo.
Ma nessun desiderio di un mondo oltre, al di là, da scoprire.
La bimba che si fa rana ci aiuta e ci invita a far un salto al di là.
Lasciandoci esprimere per la vita,
e non comprimere dalla morte.

 

Il Fenicottero


Tutti in gruppo su una gamba…
e anche lei provava questo equilibrio.
Il nome di questo volatile significa innanzitutto “ali di porpora”.
Il suo caratteristico e carismatico colore rosa dipende dal fatto che si ciba di una rara alga rossa e di crostacei, i quali conferiscono alle piume questi meravigliosi pigmenti di tinte eteree e sfumate.
Si dice che il fenicottero abbia ispirato il “mito della fenice” dalle ali fiammeggianti: l’antico simbolo della trasformazione e resurrezione, la fenice che alla fine della sua vita viene consumata dal fuoco e rinasce, poi, magicamente dalle sue ceneri.
Questo incantevole esemplare di volatile ha affascinato, nel tempo, tantissimi artisti, poeti e letterati tra cui Pablo Neruda che proprio ad esso dedica la poesia “Flamenco” ovvero “Fenicottero”:
 
"Era il suo corpo fatto di penne
eran di petalo le sue ali
era una rosa che volava
diretta verso la dolcezza.
Ho abbandonato quelle regioni
mi son vestito di frac e di ferro
m’hanno morso molti dolori
ma nel fondo di me stesso
come in quel lago sperduto
continua a vivere
la visione d’un uccello o angelo indelebile
che trasformò la luce del giorno
con lo splendore
della sua presenza ed il suo roseo movimento".
 
È con queste parole che Neruda esprime tutta la sua meraviglia e stupore dinnanzi ad un uccello tanto regale e sacro, raffinato ed elegante nel suo dolce colore di tenerezza ed ingenuità.
Il fenicottero è altresì definito “uccello dei quattro elementi” (aria, acqua, fuoco, terra); storicamente viene ricordato non solo per la sua immensa bellezza e particolarità di forma e colore, ma anche per il richiamo che esso fa alla sfera dell’emotività.
Il fenicottero rosa simbolicamente incarna da un lato: positività, fascino, eleganza, equilibrio, rinascita, amore, sensibilità, sogno, indipendenza, evoluzione e cambiamento, sincerità e altruismo; dall’altro lato, è sinonimo di dipendenza affettiva ed eccessiva vulnerabilità.
E’ un volatile che invita alla riflessione, che trasmette un senso di elevazione e purezza e, in alcune religioni rappresenta un simbolo di transizione dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce.
Il suo rapporto con l’acqua, elemento naturale attribuito alla psiche e all’ animo, ci connette agli stati superiori della coscienza e dell’introspezione.
Il suo colore rosa potrebbe ricollegarsi al chakra del cuore a cui elargirebbe un’energia favorevole, di calma ed ottimismo che pone in uno stato di forte empatia con l’altro.
Ogni fenicottero ha dodici piume nere per ogni ala, fondamentali per il volo che avviene prevalentemente di notte.
Il dodici nella numerologia è molto importante perché fa riferimento alla pienezza e totalità originaria, indicando un ciclo completo come i mesi dell’anno.
Palese richiamo vi è poi al totem dell’araba fenice, solitamente invocata per far fronte ai fallimenti della vita umana.
Insomma, un animale dalle mille interpretazioni e sfumature, che si leva nel cielo del tramonto per tingerlo di rosa!
Uno spettacolo della natura che non finisce mai di incantare ed ammaliare…
 
Non sempre possiamo camminare su due gambe; spesso la vita ci riserva incidenti e acciacchi nel percorso, per cui dobbiamo stare con un piede per terra e con l’altro raccolto su di noi.
Ma tutto questo ci insegna l’arte del saper vivere, e dell’affrontare con fiducia anche il momento dell’handicap fisico o morale che ci viene dato in sorte.
Lei ammirava questi fenicotteri come a specchio, come fossero cioè l’immagine della propria immagine, intravedendo in loro il proprio destino di vita, e comprendendo già, fin d’ora, la propria impossibilità a procedere sui due piedi, e il doversi allenare a procedere con un piede per terra e uno raccolto a sé.
Fenicottero…un elicottero destinato al volo, ma al quale viene tolta un’ala, e una base.
Ma, comunque sia, il suo destino è il cielo, non certo lo stare con i piedi per terra.
 
E lei, con un piede, saltellò alla prossima visita…
 
 

L'Elefante


Con quel peso enorme da una parte, con quel corpo esile dall’altra, i due facevano comunque amicizia in simpatia, attraverso qualche movimento di lui e un po’ di dolci parole di lei.
Un peso alleggerito, un corpo esile innalzato.
Il gravare delle situazioni della vita avrebbero potuto già da subito schiacciare questa bimba, se un destino misterioso e benevolo non gli avesse messo sul cammino qualcuno ad accompagnarla in questo mondo animale, trasformato così in un luogo di avventura e di bellezza.
Il peso dell’elefante diventa così una garanzia, e la piccola si può avvinghiare, anche se solo idealmente, alla sua schiena, per godere di un momento di relax e di passeggio sicuro sulle strade della vita.
Garanzie che non ha trovato altrove, anzi che l’hanno delusa, sfruttata e stuprata a tutti i livelli.
Senza questo ritorno naturale al regno animale, il regno degli affetti ipocriti e traditori, specie da chi gli era vicino, l’avrebbe fatta subito morire e farla finire…ma non era ancora il momento, per quella bambina che affidava ora alla proboscide del mastodonte essere il suo destino con una foglia raccolta lì, sui due piedi.
Il grosso pachiderma in quel momento appariva piccolo e gentile, mentre la piccola diventava davanti a lui qualcosa di vero, di grande e di bello, alla quale portar rispetto e amore.
E fu così, in verità, tra loro.
Nei suoi goffi movimenti, quell’animale appariva più vero e sincero di coloro che avrebbero dovuto amar quella bimba; e quella bimba, pur a malincuore e ad ultima scelta, a quell’elefante poteva solo a lui in quel momento affidare la sua fiducia e la sua amabilità, che altrove gli era finora stata negata. Poteva quel grosso animale avere amore verso quella bimba?
No, di certo.
Ma certa era la simbiosi tra loro, in quel momento.
Quella che quella bimba avrebbe dovuto avere dai suoi, ma che – per la superbia di loro – mai aveva avuta, per cui, quel giorno, arrivò da me.
E io, per consolarla, l’accompagnai qui,
a quest’isola felice dello zoo.
 
Chi si gonfia di superbia, in verità appare goffo come un elefante nella sua vita.
E calpesta chi incontra, chiunque sia, pur sia figlio suo.
Il vero elefante si guarda bene dove cammina e calpesta, e non alza mai la cresta, ma solo con la proboscide tasta il terreno e il luogo dove porsi e incontrare, e lasciarsi incontrare.
Solo così è un vero elefante; altrimenti, fa solo spettacolo da circo, e nulla più.
Senza relazioni, senza emozioni, senza amore.
Solo per soldi, venduto, pagato, merce di scambio.
 
 

La Tartaruga


Lei si accostò alla tartaruga che da decenni stava ad aspettare un non so che…
Ma ora, quella carezza della bambina, sembrava farle spazzar via tutti quegli anni di vecchiaia e di antichità.
Già.
La forza di una carezza, accompagnata da un sincero sorriso, aveva in quel momento la forza di ringiovanire anche quella vetusta testuggine.
Un sorriso e una carezza spesso alla bimba rifiutate, che hanno fatto diventare vecchia megera anche colei che poteva essere vicina e amica.
Non accogliere è il modo peggiore per invecchiare.
Quella tartaruga lemme lemme pareva segnare quel giorno la pazienza e la preziosità del cammino da gustare: senza fretta né agitazione, gusta così ogni emozione.
Inoltre, il suo guscio: una bella protezione, sicura dai pericoli; ma dal quale uscire e sgusciare al momento opportuno.
“Guarda, guarda!... - diceva la bimba - Guarda come ci guarda!”.
La tartaruga osserva, con calma e attenzione, chi gli si pone dinnanzi, quasi come a una contemplazione; e alla bimba non pareva vero di essere così considerata da quell’animale, dopo essere stata sempre trascurata da chi si aspettava di essere amata.
“Dagli una foglia da mangiare…!” la invitai.
E la bambina pose davanti al viso della tartaruga quella porzione di verde, e quella pian piano se la gustò, a gradimento suo e di noi, che stando lì, gustavamo a nostra volta quel gesto di condivisione e di attenzione che richiamava a noi la coscienza di dover accettare spesso l’umiliazione e la non considerazione là dove ci aspettavamo amore e anche solo un po’ di pietà, come per quella tartaruga desiderosa di un gesto di compassione.
 
Pensavo a come noi non siamo tartarughe, facciam le cose sempre in fretta e furia, quasi che ci manchi la terra sotto i piedi.
Aver cura e attenzione e un poco di pazienza forse – ce lo insegna la tartaruga – ci farebbe vivere meglio e con uno spirito nuovo le cose che viviamo da sempre in modo abitudinario e vecchio.
Noi siamo più vecchi della tartaruga, nell’animo.
E poi, non usciamo volentieri dal nostro guscio.
Solo la carezza di una bimba ci può richiamare a uscire.
Ma noi ne siamo infastiditi.
Non siamo gente di carezze, ma di diritti e di doveri.
Oltre, non c’è niente, per noi.
Torniamo a chiuderci nel guscio,
lasciando la bimba attonita e delusa.
 
 

Il Cammello


“Tirati su con quella gobba!” richiamava la bimba all’animale.
Ma quello ruminava la sua erba e non le dava ascolto più di tanto.
Lei allora gettò a lui una caramella.
E quello, incuriosito, si sollevò e si incamminò verso di noi.
Le sue gobbe apparvero allora con eleganza, come parte del suo portamento.
Bastò quella caramella a risvegliare l’identità del suo cammino.
Tra la rete e la bimba, il cammello annusò la sua mano.
Apparve il vero cammello, e le sue gobbe scomparvero alla nostra attenzione.
Non è importante come era prima, ma come si era messo adesso.
In atteggiamento docile e disponibile.
“Ma come sei bello!” disse lei al cammello.
E quello, quasi a risposta, fece brulicare le labbra, ed emanò un verso stile ‘grazie’.
Il cammello non capiva niente di quello che lei diceva, certo; ma intuiva la sua preziosa vicinanza, e apprezzava che – nonostante le sue gobbe – qualcuno gli stava dando attenzione.
Nel deserto, il cammello certo si sente solo, finchè non viene richiamato da qualcuno.
E così, anche in quella gabbia dorata, servito e ben fornito di cibo e bevanda, il cammello non poteva che dirsi accolto come in una locanda.
Ma mancava solo la cosa più importante: quel richiamo che la bimba gli dava ora, con una strigliata e una avvicinata, per renderlo se stesso.
 
Richiamar le gobbe al cammello non è poi tanto bello, ma fatto da una bimba in verità l’effetto già lo fa: quello di rendere al meglio la natura del cammello.
Spesso la nostra accettazione della verità questo effetto non lo dà; anche a chi si crede di doverlo dire, l’effetto non vedi venire.
Ogni volta che dirai in verità un difetto per essere corretto, troverai chi ti toglie da subito il suo affetto e ti darà disprezzo.
E così successe a quella bimba, che dicendo la verità all’animale, scoprì che in questo caso vale;
ma dicendo a chi di dover la verità,
trovò solo tanta e tanta brutalità.
 
 

L'Orso


Nella sua gabbia, l’orso solitario andava e veniva, girava senza meta e continuamente, in un vortice continuo che dava l’idea che avesse perso ogni forma di orientamento.
La forza bruta diventa una brutta cosa se non ha più un valore e un peso nella vita.
Spesso la forza ci prende e ci avvinghia e come l’orso in gabbia non sappiamo più se siamo noi a condurre o se siamo condotti noi da questa forza istintiva e irrazionale.
Un animale da compassione, ora; anche la bimba se ne era accorta da subito, e mi chiedeva: “Ma cosa fa? Come mai continua a girare su se stesso?”.
La forza bruta, senza un senso, è una brutta cosa; già, ma come spiegarlo alla bambina?
Allora le dissi: “E’ ammalato”.
E lei: “Che cosa ha?”.
“Gli manca l’amore. Non vedi? E’ solo e abbandonato a se stesso… soffre di solitudine e di compagnia che gli manca”.
Lei lo osservava con una certa tristezza e compassione, poi riprese: “Non possiamo fare qualcosa per lui?”.
“No – le dissi – non c’è niente da fare. E’ abbandonato al suo destino”.
Lei lo osservava, con quello sguardo ammirato e incredulo, come a chiedersi come potesse una forza di così grande animale ridursi a essere nulla e ridurlo a nullità.
Da paura, quell’animale suscitava ora compassione e pena.
Da prudenza nei suoi riguardi, ad accoglienza e premura per la sua condizione.
Anche la nostra vita – avrei voluto spiegare alla bimba – è così: per un tempo si mostra forte e gaia nei nostri confronti; poi, d’un tratto, ecco che si riduce a debolezza e fragilità, ad essere in balìa del destino.
Se potessimo capirlo, questo, anche per la nostra vita!
Siamo orsi finchè possiamo e ce la facciamo; poi, per chissà quale sorte, ecco che diventiamo animali ingabbiati e da visitare, quasi come ammalati in una clinica.
Mentre ero intento a questi pensieri, la bimba mi richiamò: “Ma che fine farà?...”.
“Mah…Intanto, come vedi, è già finito: tutta la sua forza e la sua baldanza, a che serve ora? A niente. E poi, con chi ha a che fare, se non con se stesso? Dove sono finiti i suoi simili, i suoi amici, e i suoi nemici? Nessuno gli fa più compagnia né stimolo per vivere…Sta qui solo per essere visto, per ora…poi, non lo vedremo più…”.
La bimba si rabbuiò dal suo sorriso: “Quanto mi piacerebbe liberarlo!”.
“Anche libero, dove andrebbe ora? E’ vecchio, come vedi. E poi, le sue gabbie sono dentro di sé, non certo queste qui fuori. Sarebbe solo libero di morire fuori di qui, non certo per vivere” e le posi una mano sul capo, come a gesto di consolazione per quella che lei considerava una triste situazione.
 
Gira e rigira nella gabbia della vita, senza meta e senza senso, è ormai una realtà che appare sempre più evidente in chi non è clemente.
Clemente né con sé, accettando quel che è; né con il mondo attorno, che gli farà da gabbia e da confine, perché manca un fine.
La fine non è vicina: è già presente, e in ogni cosa.
Fare o non fare non cambia:
tutto è destinato alla morte.
L’orso in gabbia è potenza che da espansione s’è ridotta a commiserazione.
 
 

I Pinguini


“Come le rane, sono un po’ dentro e un po’ fuori dall’acqua” – osservò la bimba.
“Sì – risposi io – ma loro sono goffi e ridicoli, meno attenti ai due mondi, più istintivi e frettolosi”.

“Già – disse lei – meglio la rana”.
 
Il pinguino non ha certo quella forza di indipendenza che ha la rana.
Lui vive e condivide con la sua comunità senza dare troppo valore alla propria autonomia, facendo spesso quello che fanno gli altri, accompagnandosi sempre a loro.
Per questo non lo si vede autonomo e indipendente, ma dipendente e gregario alla sua comunità.       Pensare come la pensan tutti e agir come fan tutti è ormai la moda della pinguedine umana, che trae dal modo di essere e di vivere comune la sua strada.
Seguir la moda e la convenienza è ciò che fa ingrassare la nostra identità, e questo il pinguino lo sa.
E così fa.
Così fan tutti.
E insieme ci si diverte e la si gode; sì, proprio come in quella vasca dove entrano ed escono tutti questi pinguini dello zoo.
Non si nota nessuno in autonomia; tutti invece sempre in compagnia.
La compagnia aggrega, ma non fa crescere l’indipendenza e l’autonomia, se non viene vissuta con animo libero.
Vediamo questi animali agire insieme e aggregati, ma non li distinguiamo nel loro agire singolarmente.
 
“Meglio la rana…” sottolineò la bimba.
 
Sta di fatto che questa aggregazione se da un lato ci dona simpatia e accresce il senso della compagnia, dall’altro ci nasconde l’intenzione e l’attenzione che ognuno pone al proprio agire e al proprio vivere.
Aggregarsi e nascondersi sono due atteggiamenti che fan parte dello zoo della vita.
Dimenticando e svalorizzando le proprie responsabilità e il proprio impegno di persona.
 
“Certo, meglio la rana” approvai.
 
E poi, manca a questi pinguini un po’ di attenzione e di applicazione nel loro frettoloso agire.
C’è un istinto al comando di questa allegria comunitaria che ci fa perdere di vista la considerazione della situazione che viviamo, ponendo in atto un momento di valutazione e di considerazione delle cose, senza fretta e senza ansia, ponderando il tutto.
Queste cose non sono nel carattere del pinguino, che se la gode e sfrutta al momento la situazione, sentendosi appagato di quella comunità che sostegno gli dà.
Finchè vivrà, sarà così.
 
Meglio la rana, in questo.
 
 

Il Lupo


“Che cosa ha a che fare il lupo con la rana?...” mi chiese la bimba.
“Niente…niente…almeno, che sappia io…” risposi, mentre osservavo quel lupo.
 
Un custode dello zoo stava passando in quel momento, e mi salutò.
“Ma non erano due i lupi…l’altra volta…?” gli chiesi.
“Abbiamo avuto un bel problema con la lupa” riprese lui, scostandosi a lato, per non farsi intendere dalla bimba e abbassando il tono della voce.
“Cosa è successo?” chiesi sottovoce, interessato dal suo dire.
“La lupa, incinta, è impazzita quando ha generato…”
“Che vuol dire?”
“Beh, alla nascita della cucciola, l’ha subito rifiutata: la trattava male, la allontanava, e non la voleva averla assolutamente vicina… Ma quello che mi ha scioccato è che in pratica, con questo suo comportamento, l’ha portata di fatto a farla morire. Niente, se fosse tutto qui… La piccola, una volta morta, quella pazza lupa se l’è tenuta nella tana, e l’ha sotterrata lì, dove nessuno poteva accostarla. Prima insomma l’ha partorita come se non l’avesse mai voluta, poi l’ha tenuta stretta a sé morta, come se non volesse mai lasciarla: lupa pazza, impazzita”.
 
“Come mai questo lupo è da solo nella gabbia?” chiese la bimba avvicinandosi a noi.
“Dopo te lo spiego…torna a vederlo, intanto” e la rimandai alla gabbia del lupo.
 
“…Ma poi l’avete soppressa?” chiesi al custode.
“No, non si può. L’abbiamo isolata, non è più qui; non so dove sia finita; meglio comunque tenerla lontana da qui!”.
 
“Allora, adesso ti spiego perché è da solo questo lupo: sta aspettando la sua lupa, una in gamba, sulla quale possa contare per formare una famiglia. Finora non l’ha trovata. Ne aveva trovata una, ma si è mostrata inaffidabile. E lui ha pensato: intanto, meglio soli che mal accompagnati. Prima o dopo vedrai che troverà la sua compagna di vita, e quando ritorneremo vedrai tutta la sua famiglia”.
“Ma le rane…anche loro hanno una famiglia?”
“Certo – esclamai con un sospiro - e speriamo non seguano il destino di questo lupo!”.
 
A VOLTE, LA PAZZIA E’ UNA FORMA DI MALVAGITA’
INSITA IN UNA PERSONA,
CHE VOLENDO APPARIR NORMALE
AGLI OCCHI DELLA GENTE ATTORNO A LEI,
SCARICA A TUTTO GAS
SU CHI GLI E’ VICINO QUEL CHE E’ DEL SUO DESTINO.
 
 

Il Leone


Alla gabbia del leone c’è una divisoria in vetro per una miglior visione.
E la bimba mi chiese qualche foto con il sottofondo dell’animale, quasi fossimo vicini.
Quasi fossimo parenti.
E in effetti, un po’ del cuor del leone appartiene a tutti noi.
Sia in male, in arrabbiature e ferocie, sia in bene: in forza e tenacia.
Alla bimba non pareva vero di poter stare così vicina al leone, attraverso la divisoria in vetro.
Quasi lo accarezzava, con timore e venerazione, e con una certa prudenza.
Eppur, crescendo, chissà se quella dolce e timida fanciulla non avrebbe dovuto ricorrere alla forza del leone per affrontare i suoi problemi…
Solo qualcuno lo sa…e qualcuno nemmeno se lo immagina come sarà.
Saranno leoni altri attorno a lei, iniziando dai più vicini.
Le sbraneranno gli ideali, le faranno a brandelli l’anima, la strazieranno.
Ma non riusciranno a farla finire subito lì, con la loro violenza.
Perché il suo cuore di rana la farà rimbalzare ora qua, ora là.
Sfuggendo, finchè le sarà possibile, a questa disumanità.
E il leone della gabbia, in questo caso, è più docile di un agnello in libertà.
Mentre chi le farà violenza la tratterà come fosse un agnello in gabbia.
 
“E la rana…la rana, c’entra con la vita del leone?...” interruppe la bimba.
“…C’entra, eccome: lei salterà e balzerà, come danzando e sfuggendo qua e là, più energica e scattante di ogni leone!” risposi con un tono di solenne affermazione.
E la bimba sorrise, appagata di quella abbinata che lei riteneva vincente: un corpo da rana e un cuore da leone era in quel momento per lei il massimo che poteva avere per la sua vita.
Mentre ci allontanavamo dalla gabbia del leone, osservavo quell’animale mezzo assonnato e intento a rosicchiare un grande osso che gli era stato posto innanzi, pensando al fatto che i veri leoni nella vita non sono quelli, ma noi qui fuori, che siam pronti a sbranare e a sbranarci ogni volta che, a mo’ di una rana o di una bimba, diamo fastidio gli uni agli altri.
 
“E adesso, cosa andiamo a vedere?...” richiamò la bimba/rana saltellando dinanzi a me.
 
 

La Giraffa


Guardare le cose dall’alto.
E’ la scuola di vita della giraffa.
Vedere le cose terra terra è utile e concreto, ma senza lo sguardo dall’alto non è possibile accedere alla speranza, alla fiducia e alla bellezza del panorama appieno.
E poi, per parlare alla giraffa devi proprio farti umile, e riconoscere che non devi abbassarti per farlo, perché lei è sempre al di sopra di te.
Per farsi umili occorre non abbassare lo sguardo, ma alzarlo a lei.
Per osservare il volto della giraffa da vicino, usai l’obiettivo della camera fotografica.
E la bimba osservò quel volto lontano ora fattosi così vicino a lei.
Se abbiamo un obiettivo, anche le realtà più lontane si fanno vicine.
Ma ecco che d’un tratto la giraffa abbassa il suo volto verso di noi, mentre io sto sistemando l’obiettivo della fotocamera.
La bimba aveva colto un fiore, e glielo aveva mostrato; e quella, incuriosita o attratta da quel che poteva pensare essere un cibo gradito, s’era abbassata a lei, fin quasi alla sua mano.
L’obiettivo la bimba l’aveva già, e l’aveva espresso così in quell’occasione, in concreto, mentre io lo filosofavo dentro di me per lei.
“Ma perché hai preso proprio quel fiore per la giraffa?” le ho chiesto.
“Perché ho visto che lei lo guardava dall’alto” aveva risposto.
“Ma come hai fatto a vedere che lei guardava da lassù quel fiore qui sotto?” richiesi.
“Boh..” e stupita e sorridendo guardò alla giraffa e poi a me.
L’obiettivo – pensai – lo raggiungi quando il tuo sguardo si intende con quello dell’altro, anche se fisicamente distante.
Ma è lo sguardo del cuore, quest’ottica diversa che la bimba mi accennava, a far apparire ciò che era interessante non solo per noi, ma anche allo sguardo del cuore dell’altro, alla sua ottica.
 
Questione di ottica, non di occhi.
 
 

L'Ippopotamo


Tra la leggerezza della bimba saltellante e la pesantezza del pachiderma inerme potrei ben collocare la mia persona.
E mentre mi appoggio alla transenna a richiamare l’animale, quasi a svegliarlo dal suo essere assonnato, mi immagino che cosa sia la pesantezza delle nostre realtà umane, senza lo spirito di quella fanciulla ranocchia accanto a me, che ancora balza e non si stanca, e canta e sorride.
Essere allo zoo senza di lei, che senso avrebbe?
Lei ti rende leggero l’animo, la mente e il cuore; e anche l’ippopotamo sembra quasi volare tra le nuvole, contagiato dalla sua leggerezza.
Rimango a contemplare un po’ questa bella atmosfera, creata da un semplice sorriso e da niente di fatto in più, se non una presenza, che con i suoi pregi e i suoi limiti, regala a questo zoo e a quello della vita la sua umanità: sì, umanità.
A volte, in disumanità, abbiam più peso noi dell’ippopotamo.
“Guarda, si muove verso di noi – e richiamo la bambina – vieni!”
“Eh, sì…ha visto il biscotto che gli ho gettato qui sotto…” mi risponde lei.
“Non si gettano biscotti agli animali!...”
Poi, pensandoci bene…
“Brava! Hai visto come una rana è riuscita a far muovere un ippopotamo?”.
 
Non è questione del piccolo o del grande nelle nostre relazioni.
Né del più o meno forte.
E’ quello che poniamo tra noi che fa muovere o allontanare le relazioni.
L’ippopotamo, intanto, spalanca a tutto spiano la bocca, a mo’ di estremo sbadiglio; e anch’io, contagiato, sbadiglio.
Sono anche un po’ stanchino.
Ma ammirando la bimba vivace subito mi riprendo,
e riprendiamo il cammino.
 
Il contagio.
Questa grande impossibilità a procedere.
Questa grande possibilità a riprenderci.
Non restare all’ippopotamo.
Segui la rana.
 
 

Il Coccodrillo


Immobile al sole, pare fatto di pietra.
Sarà stanco.
Sarà abbuffato.
Sarà addormentato.
 
La bimba lo osserva per un po’, poi mi dice:
“E’ una lucertola, vista da qui”.
Già.
Da lontano, non vedi mai il pericolo, e nemmeno l’occasione.
Solo quando ti avvicini o ti si avvicina una situazione, appare il bello o il brutto.
“Cosa fa quell’uccellino lì vicino alla sua bocca?” mi chiede incuriosita.
“Gli fa la pulizia dei denti, gli fa da spazzolino; e intanto si nutre anche lui”.
“Ma non gli fa niente il coccodrillo?”
“Ma no, loro si intendono, e si aiutano a vicenda, a loro modo”.
 
Il parassita.
Non sempre è negativo.
A volte, anzi, ci toglie, in qualche modo, anche se a noi non va, la negatività.
O l’eccesso.
E noi, se lo accettiamo così, gli diamo più forza e possibilità per ripulire la nostra negatività.
Ma se rimane attaccato a te tale e quale, senza toglierti nulla e senza nulla fare, allora è proprio da cacciare.
Ma il parassita ci aiuta di più quando ci dà o quando ci toglie?
 
Il coccodrillo si è intanto mosso, e scende nell’acqua, e scompare.
“Guarda! Anche lui fa come la rana!” mi richiama la bimba.
“Certo, perché si è dimenticato di essere una lucertola!”.
 
Guardiamo agli altri, crediamo che siano così,
ma appena loro si muovono,
appaiono diversi da com’erano lì.
Gli occhi non bastano per l’ottica sul mondo:
occorre avere in essi la disposizione a muoverli.
 
 

Le Scimmie


Tra stridore e urla ci ritroviamo tra le scimmie e gli scimpanzé, e con un gorilla.
La compagnia animale più vicina a noi ci accoglie con la sua vitalità, scorazzando tra liane e piante, fogliami e rami, e in questo modo ci fa sentire a casa nostra…
“E’ vero che noi discendiamo dalle scimmie? Che differenza c’è tra le scimmie e noi?...” – è la nuova richiesta della bimba.
“Discendiamo…ma non subito…nel tempo: tanto, tanto, tanto…poi cambiamo…poi, di preciso, non saprei. Ma la differenza tra noi e loro è che noi abbiamo la coscienza, e possiamo usarla. Loro no, non ce l’hanno”.
“Ma capiscono…?” mi richiede lei.
“Sì, con i sensi; ma poi non si rendono conto, non fanno uso della ragione, anche se sembra qualche volta. Manca la coscienza, proprio quella che qualche volta sembra che manchi anche a noi, quando facciamo le cose, capiamo, ma non ci rendiamo conto…”.
Lei mi osserva, poco convinta; poi segue con interesse il via vai delle scimmie, scruta il gorilla seduto là in fondo…e la questione finisce così.
 
Dicendola al contrario, il mondo animale ci insegna a fare le cose in modo naturale.
Sì, a non usare la coscienza per fare artificiosamente il bene o il male.
La coscienza ci dovrebbe mettere in sintonia con la nostra natura.
Come i sensi mettono in sintonia le scimmie con la loro natura.
Ma…lasciamo perdere…
 
La fanciulla, intanto, sta correndo qua e là gioiosa,
esprimendo in modo naturale la coscienza di essere serena.
 
Scimmiottare.
Un verbo che ci accosta in modo animalesco alla scimmia.
Degradando l’umano e insieme l’animale.
Imitando bene il peggio e imitando male il meglio.
E applicandolo all’animale, ingiustamente.
E altrettanto ingiustamente, alla persona.
Con un pizzico di coscienza possiamo riportare il tutto alla naturalità.
Alla natura animale.
Alla natura umana.
 
“Guarda – mi richiama lei improvvisamente – il gorilla si gratta il sedere!”.
Sorridiamo.
 
 

Sosta al baracchino


Per la merenda ci siam fermati al baracchino,
quel chiostro posto all’ombra,
per fare un ristoro nel cammino.
Seduti e rilassati, io prendo il mio solito bianchino con le patatine; lei un piccolo gelato, e nulla più. 
Invitata a mangiare ancora qualcosa, rifiuta e mi invita a procedere nella visita, a non perder tempo prezioso in quella occasione serena e ideale che non si vuol perdere.
Ma prima di procedere, l’ho convinta a fare un giro del parco sul trenino, che passa per i luoghi più significativi del parco, ammirando ora a destra, ora a sinistra, ora da sopra o da sotto i vari settori dello zoo.
 
Ci voleva questa piccola sosta viaggiante per riprendere coscienza del percorso e del nostro procedere, per orientarsi meglio e per valutare i nostri percorsi fatti e quelli da fare.
Anche nella vita, ripassare in altro modo quello che viviamo ci fa essere più rilassati e coscienti nel cammino.
Continuare a procedere senza fare una tappa o non cambiando il modo di procedere rischia di farci andare avanti senza un senso e un perché, come perdendo il gusto della sorpresa e della novità.
“Il treno dei desideri e dei miei pensieri, all’incontrario va”…ma il vedere a ritroso, a volte, fa vedere meglio quello che pensavamo di aver già visto appieno, e che invece ci fa intravedere in una nuova ottica del percorso, di quel settore, di quella visita, di quel passaggio.
 
La merenda ci ha fatto rilassare e riprendere le energie nuove per continuare il cammino, per avere la giusta energia nell’apprezzare e nel valutare le cose.
Continuare a procedere, senza sosta, ci avrebbe sfiancato e non fatto godere appieno il viaggio nello zoo.
“Che bello il viaggio sul trenino!... - dice la bimba entusiasta… - Ancora uno…?”
“Va beh…dai…!” e ricompro il biglietto, e si rifà il percorso, osservando in modo nuovo e più attento le cose che prima ci erano sfuggite.
“Dopo, basta, però!...” e mi abbandono sul sedile del trenino.
 
 

L'Anatra


La bimba, allora, ne era rimasta affascinata:
“Vorrei anch’io essere un giorno come l’Araba Fenice!”
“Cerca di essere intanto almeno un’anatra felice!”
le avevo detto in battuta.
 
Ma la vita ci riserva ben altro che anatre e oche…
Anche se, a mio avviso, penso di aver capito la differenza tra verità e starnazzo.
Non è quello che dici,
ma il come lo dici che fa la differenza.
Puoi dire anche cose belle e intelligenti;
ma se il modo di parlare par quello dell’oca,
è solo starnazzare.
E’ lo spirito con cui parli che fa differenza fra verità e starnazzar dell’oca.
In questa parentela tra anatre e oche si inseriscono certe persone – e non solo donne – che a parlar bene e di cose buone sembra si intendano assai, ma al suon della loro voce già appar lo spirito dell’oca starnazzante, alla quale non affideresti nemmeno un’unghia di te.
Eppur, di oche è pieno il mondo,
e par prolifichino anche bene.
 
“Ricordati – adesso te lo dico seriamente, dissi alla bimba – che tu sei già, col tuo desiderio sincero, l’Araba Fenice. Sì, perché quello che desideri sinceramente già ti realizza nello spirito, nella mente e nel cuore”.
L’Araba Fenice rinascerà,
oltre le sue morti morali e fisiche, dalle sue ceneri.
La bimba non so perché avesse fatto riferimento a questo simbolo di rinascita.
Forse perché ne era istintivamente affascinata, o forse intendendo altro…
Ma altro non le chiesi, per non sembrarle invadente, e anche per rispettare il suo prezioso e misterioso piccolo desiderio.
 
Ma, ora che ci ripenso, dove l’aveva vista quest’Araba Fenice, se allo zoo che avevamo visitato non c’era proprio?
Mah…sarà una fantasia che avrà raccolto chissà dove o chissà quando…
 
Mi sovviene ora anche la storia del Brutto Anatroccolo…e qui l’anatra comincia ad apparire più simpatica e con una comprensione e una compassione da parte nostra.
‘Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e ora sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli!'.
Questa trasformazione ce la auguriamo, ogni volta che ci specchiamo nelle nostre brutture e risentiamo ad eco i nostri starnazzi.
 
“Qua!...Qua!...”: eccola a chiamar le anatre…
Lei è capace di trasformar il semplice starnazzo in un richiamo allo spirito della verità.
 
 

Lo Struzzo


Sculettando e procedendo mostrando il meglio di sé,
mi par di veder la gran signora – che almeno si crede così – che va “a negozi” per distrarsi dal suo doversi riconoscere per quel che è: uno struzzo.
“Guarda, guarda come nasconde la testa sotto la sabbia…perché?” chiede la bimba.
“Il perché non lo so, ma so che è un modo per far capir a qualcuno tra noi che non si deve nascondere quel che c’è, ed evitare di pensare con la testa nascondendola, dando a noi adesso l’immagine di uno che ragiona non più a partire dalla coscienza, ma dalla larga escrescenza che sta dietro…non ti pare? Col rischio di far vedere al posto della faccia il posteriore!”.
La bimba sorrise e stette a osservare se quello struzzo ritornasse a sollevare il capo.
 
Mah…chi fa lo struzzo, prima di farlo, lo è.
Non si tratta di un fatto in sé, di un momento, ma di una mentalità.
Se la tua mentalità è quella del nascondere la realtà dei fatti, sei di fatto uno struzzo in mentalità.
Se poi mostri all’altro il posteriore e non il volto credendoti a lui superiore, quale faccia appare di te, se il primo si vede e l’altro no?
Chi struzzo lo fa, prima ancora lo è.
 
La bimba, intanto, sta disegnando in fantasia qualcosa sulla sabbia con le sue ditine.
Mi viene in mente allora la canzone: “Ho scritto t’amo sulla sabbia”…o anche quando quel tipo là aveva scritto sulla sabbia qualcosa mentre volevano lapidare quella ragazza, e poi non l’hanno fatto.
 
Differenza enorme
tra il detto lapidario e il detto da lapidare.
Il detto lapidario
riassume in breve la verità e la realtà.
Il detto da lapidare è quello da eliminare,
prima che si faccia una lapide fissa.
E qui ho compreso perché non bisogna far lo struzzo, ma denunciare ciò che non va.
A sculettar siam buoni tutti usando il posteriore, mostrando il meglio di noi in basso.
A mostrar a testa alta quel che siamo, forse ci indica meglio dove noi ora andiamo.
 
“Dove andiamo adesso?” –mi richiama la bimba, rialzandosi dal suo scritto sabbioso.
“Vediamo…cosa hai scritto?...Hai disegnato… Lo struzzo che nasconde il sedere sotto la sabbia!...”.
 
Mentre procediamo, mi viene in mente quella signora/struzza, che la chiamavano nel paese:
“Il mostro di Locness”.
Sì, perché apparentemente si dava arie di normalità e tranquillità, ma quando emergeva il suo vero volto, appariva con tutta la sua mostruosità… chissà se c’è ancora, e se sarà riuscita a far emergere qualcosa di buono da sé…
 
 

L'Anaconda


Nel rettilario, tra serpenti vari e pitoni, la bimba si sofferma per un po’ a fissare quell’enorme anaconda che mezza intontita e assonnata solleva appena appena il capo verso l’oblò.
“Se ti prende l’anaconda – le canto – la tua vita non è gioconda…”
E lei ripete la melodia sorridendo.
E mentre procediamo, la canta e ricanta…
 
Stringere i panni addosso all’altro, condizionarlo, stringerlo nella morsa…e pensare che qualcuno è convinto di farlo per amore!
E alla fine, si uccide l’altro, o moralmente, o fisicamente, o lo si induce indirettamente alla morte. L’anaconda ti costringe a morire mentre ti stringe…proprio come chi ti vuole tutto a sé, impedendoti di essere nella libertà.
Mentre guardavo alla lunghezza dell’anaconda, pensavo anche alla ben molto più corta lumaca, e associavo le due, istintivamente, immaginando che chi fa come l’anaconda, in realtà, lascia la sua bava come la lumaca lungo il suo tragitto.
Con la differenza che nel caso degli umani la cosa è diabolica in entrambi i casi, mentre per l’anaconda e per la lumaca è la loro caratteristica naturale.
 
“La vipera!...” mi richiama la bimba da là più avanti.
“Sì, pure quella!” e sorrido con un po’ di ironia, pensando al fatto che quando uno stringe, sbava e avvelena, estrae dall’animalità tutto quel che gli serve per far di sé mostra di superbia…
”Eccomi, arrivo…”.
“Guarda quel serpente là – e la bimba addita a un rettile che pende da un ramo – è proprio come quello di Adamo e Eva…o no?”.
“Seeeh…e dove l’hai visto tu quel serpente?” gli sorrido come a prenderla in giro.
“L’ho visto disegnato sulla Bibbia che stavo leggendo qualche giorno fa…sì, è uno proprio così…quello del peccato…come si dice?...”
“…Originale!”…
“Perché originale?”
“Non c’è niente di originale, è normale. Originale perché all’origine dell’umanità, ma anche perché noi ogni giorno, quando ci alziamo, all’origine della giornata, siam fatti per far peccato, istintivamente…”
La bimba mi guarda con volto preoccupato e un po’ timoroso…
“Sì…-continuo- perché siamo stati contaminati all’origine. Ma se poi riflettiamo e usiamo la coscienza, ecco che evitiamo il male e la giornata procede bene…come oggi, e speriamo come domani, e dopodomani…”
“…E sempre!” conclude lei apponendo alla risposta il sigillo del suo ritrovato sorriso.
 
 

La Foca


Abbiamo anche fatto una foto davanti al vetro della foca vagante nell’acqua.
La foca scivola via, svincola, si libra nell’acqua, non puoi afferrarla né prenderla.
E’ l’immagine dell’oceano che libera e fa liberare chi vi abita.
E forse, la bimba intuisce questa dimensione.
“La rana non ha questa possibilità…?” mi disse interrogandomi.
“No, la rana ha due ambienti in 50%, la foca non così”.
“E’ meglio la foca, allora?” mi richiede lei.
“E’ meglio quello che hai scelto per te, che ti si addice”.
La foca esprime appieno la sua libertà nel vagar per l’acqua; la rana, no: deve fare i conti con la sua situazione che ha quando ha i piedi per terra.
Così è per questa bimba, che vorrebbe essere libera, ma ha condizionamenti a terra che non le permettono di essere foca, ma soltanto rana.
E viver da rana, ha i suoi pregi e i suoi difetti…
 
Quando c’è un’ottica da affrontare, che diciamo se non: focalizzare?
La foca, eccola a focalizzare.
La foca focalizza il percorso di vita.
Senza la foca, non vediamo la bellezza del mare e del suo vagarci in libertà.
Con la foca, focalizziamo i nostri problemi e mettiamo a punto le scelte da fare.
La foca.
Focalizzare.
Equilibrare la vista con tutti i sensi.
Se sfochiamo la nostra ottica, perdiamo tutti i punti di vista, e vediamo male.
Il veder male fa parte di chi non focalizza, ma vede solo l’apparenza.
Vedere senza focalizzare, è non vedere la realtà.
E’ sfasarla.
Focalizzare è punto cruciale per maturare, e lo auguriamo anche alla bimba.
“Metti sempre a fuoco, proprio come fossi una foca!” gli dico.
“Che vuole dire?” mi ribatte.
“Non fermarti all’apparenza, al vedere le cose come le vedi subito; focalizzale, mettile a fuoco, in equilibrio tra i tuoi sensi: solo allora appaiono in verità, e non in illusione. Foca: focalizza!”.
La bimba mi guarda, volge qua e là il suo sguardo, come in ricerca, poi ritorna a contemplare la foca e dice: “Quella foca è più di una foca: mi sta insegnando qualcosa in più che non solo il vederla…”.
“Brava, hai già capito il tutto…e il di più di quel che ti volevo dire!”.
 
 

Il Canguro


Salta qua e salta là, ma non dimentica il figlio che ha.
Il marsupio.
Quella cosa che ci richiama il tener con sé la creatura fragile e debole.
Madri che ignorano e abbandonano le loro creature, pensando solo a se stesse.
A prendersi il sole al lago, a farsi compagnia con l’uomo di turno, a non rispondere mai al telefono quando c’è bisogno perché… stan facendo i propri comodi: abbronzarsi, prendendosi il sole…e quant’altro (?)…mentre la sua creatura muore!
Che drammi!!!
Il canguro porta in sé il figlio generato,
e non lo abbandona, come fa l’umano disumano.
 
“Che salti fa!...Sono proprio belli!” mi dice la bimba.
“Esprimono l’energia della vita…e tu, che vuoi esser rana, impara a saltellare così!”.
“Sì, sì…mi piace proprio questo saltellare…è come una danza, un ritmo, un seguire una musica che noi non sentiamo…”.
“Già- le riaffermo – noi non la sentiamo, ma questa madre la sente nel suo cuore, la trasmette al suo marsupio e così al suo figlio…pensa come un giorno balzerà fuori da lì, pieno di vita e di gioia!”.
 
Impedire il salto.
Bloccare.
E’ l’educatrice e la genitrice del dovere e non del cuore.
Che non ha capito niente della vita, e vuole solo il proprio interesse.
Cioè far bella figura per sé, per quello che è, e non per quello che dà.
Dare la possibilità del salto fuori dal marsupio morale è far vivere.
Tenere stretto a sé nella vita è far angosciare l’altro, fosse anche tua creatura.
Tenerlo poi stretto nella morte, esprime solo un rimorso di coscienza, che attesta a te e agli altri quello che non hai fatto per far vivere la tua creatura…l’hai fatta morire, tu!
 
Il canguro rilancia al salto del cuore, dell’animo e della mente ciascuno di noi.
La bimba subito l’ha intuito,
e si è animata anche fisicamente della sua danza.
Un saltellare gioioso e vivace,
esprimente la vita e mai la morte, un avanzare oltre.
“Che bello fare questi salti!....” mi richiama saltellando qua e là.
“La rana ricorda che deve imparare dal marsupio del canguro a portare sempre con sé la vita, e mai la morte…” le dico in tono solenne.
Lei mi ha guardato con un velo di tristezza, come ad annunciare la sua impossibilità a poter condurre a termine il percorso del canguro, e a dover accontentarsi si rimanere solo una rana, una semplice, umile e limitata rana, soggetta ai suoi e agli altrui limiti.
 
“Dai, salta, saltella,…non star lì bloccata a guardare!” la riprendo.
 
 

La Volpe


Astuzia, interesse, calcolo e intrallazzo,
questa la caratteristica della volpe umana.
Non certo di questa bimba che ingenua, buona e sincera, dalla volpe sarà fregata.
Mi auguro di no,
ma la realtà mi dice sarà prima o dopo un sì.
L’eleganza della volpe nella sua apparenza non corrisponde certo alla sua essenza.
E così, chi vuol far apparire se stesso in furbizia, pecca sempre per la sua superbia.
Con la favola della volpe e dell’uva, la volpe trova per sé sempre una scusa: non riesco a raggiungerla perché è acerba, non perché non riesco.
Ma dove riesce, matura o acerba, la volpe fa il suo danno senza remore o timore.
In questo senso, la donna, la donnola e la volpe sono una triade di intraprendenza.
Per far uso e consumo per sé di quello che c’è, fosse cosa o persona non interessa.
 
“Ma che bella coda che ha!”
mi dice ammirata la bimba, osservando la volpe.
“Non guardare alla coda della volpe, che ti inganna: guarda al suo muso affilato e furbesco, che aspetta solo di poterti ingannare!” rispondo io.
 
Guardando alla coda, non tieni d’occhio la testa,
e lei ti inganna.
Così, nelle persone fatte a volpe, succede che tu le osservi alla fine, alla coda, ma non ti accorgi che nel frattempo loro agiscono contro di te dalla loro testa, da quel pensare che tu non vedi, perché sei ammaliato dalla loro coda, cioè dalle loro apparenze.
No, non lasciarti ingannare.
Guarda sempre alla radice, a capo delle cose.
Dalla furbizia alla malizia.
La volpe ci suggerisce questo passaggio.
E chi accetta questa logica di furbizia ti inganna con la malizia,
ma mai da lontano, sempre da vicino.
Proprio perché ti inganna nell’esserti amico, fratello, madre…
Ma l’anima della volpe alla fine si rivela, in qualche modo e con qualche sbaglio.
Quando ad esempio tratta te in modo disgraziato e l’altro in modo esaltato.
Eppure, magari entrambi figli della volpe.
Ma il modo subdolo della volpe si tradisce nell’amore, che vive male, cioè che non riesce a vivere in verità; e proprio il viver male il suo amore, fa vedere che la volpe ha solo un interesse nel suo amore: il garantir a se stessa il meglio.
E se tu non sei in grado di garantirglielo, lei ti tratterà come uno straccio a finire.
 
“Guarda…la volpe rientra nella tana…” mi richiama la bimba.
“Sì…- le richiamo sottovoce – sta ritornando a progettare un altro inganno:
stai attenta se la incontri sulla tua strada!”.
 
 

La Iena


A rider e sghignazzar
e a mangiar carcasse è il suo forte…
Non so se sto descrivendo un animale o una persona…lascio a voi.
 
“E’ come un cane…” dice la bimba.
“Sì…potremmo dire che è un cane…degradato” cerco di spiegarle.
“Cosa vuol dire?”…domanda lei
“Tu, se ami un cane, lo apprezzi e lo curi, e lui ti vuole bene, vero?”.
“Sì…” mi risponde lei.
“La iena non vuole essere un cane, non vuol riconoscere la sua natura, e quindi si immedesima in un sottocane, in un cane non educato, non amato, non rispettoso e non rispettato…mi hai capito?” le chiedo.
“Ma è lei che vuole così?” mi richiede.
“No. E’ la sua natura, però ci richiama come questa natura sua sia scelta a volte dalle persone per imitarla nello scegliere la morte e nell’irridere gli altri, magari a partire proprio da quelli che stanno accanto” e la guardo.
La bimba è assorta; non so se stia pensando o se si stia preoccupando per qualcosa o per qualcuno, o per se stessa.
“Sì, questa è la iena – cerco di rincuorarla – ma noi possiamo essere superiori a lei e non imitarla.       Anzi, non dovremmo mai prenderla ad esempio.
Tu, invece, pensa a curare qualche cagnolino che conosci, e fanne un sopracane: un cane che supera se stesso, col tuo aiuto.
Conosci un cagnolino da aiutare e da far crescere così?” chiedo.
“Beh, sì…Non è proprio il mio…Ogni tanto sta con me…    E sto bene con lui…”.
“Bene. Stando con lui, impara a non scendere mai a livello della iena, ma a crescere sempre, partendo da lui, per fare di lui un cagnolino superiore, un “sopracane”, e di te una ragazza in gamba, una superragazza!”.
Lei sorride, e osserva ancora la iena.
Poi: “Ma la iena resterà sempre così?”.
“Sì, per farci capire quello che non dobbiamo diventare, e per farci da confronto in quello che siamo già: se stiamo diventando iene, o se – con l’aiuto dei cagnolini – stiamo cercando di essere noi stessi” – e qui mi par di aver fatto un po’ la morale.
“Certo –interviene lei- anche per la iena la vita non è tanto bella…”.
“Lo è dal suo punto di vista bella; ma nei confronti degli altri è proprio un dramma.
Tu, intanto, continua a imitare la tua rana e non quella iena…chiaro?”.
“Certo…sì…” e volge un ultimo sguardo di compassione alla iena, che là sotto, si compiace nello sgretolare le ossa della carcassa che gli è stata messa per cibo.
 
 

Il Lama


“Attento!...-mi richiama la bimba – Ti sta sputando addosso!...”.
Mi scosto veloce e sorrido insieme a lei, osservando il lama che di nuovo si avvicina per cercare un po’ di cibo da noi o per sputacchiarci di nuovo addosso.
 
Se fosse solo questa la sputacchiera!...
Purtroppo, sputar sentenze e maldicenze fa parte di tanti di noi oggi.
Che, ritenendosi dei ‘Dalai Lama’ si sentono in dovere di sputar di qua e di là ogni sorta di malvagità.
E questo, senza avvertirti, senza darti il tempo di poter difenderti, o reagire.
Improvvisamente, come un colpo di rivoltella, ti arriva una palla di saliva addosso.
Sputare.
E’ per il lama non certo intenzionale, fa parte della sua natura.
Per noi, certo non è sempre naturale.
Sputare addosso come rifiuto di fronte a qualcosa o a qualcuno è intenzionale.
Si sputa anche se non si vede la saliva.
Anzi, la saliva invisibile ha più effetto di quella che si vede.
Il lama, prima del nostro ritorno all’uscita di questo parco, ci richiama che non tutto è rose e fiori nella vita.
Ci richiama a non attenderci sempre e ovunque approvazione e lodi.
Ci richiama alle incomprensioni.
Ci addita le sputacchiere umane, create dal mondo e dalle persone ogni giorno.
 
“Attento…ancora sputa!” mi avverte la bimba.
Mi scosto ed evito all’ultimo secondo quella pallottola sputativa.
 
Ecco, se qualcuno ci aiuta e ci accompagna, nelle sputacchiere della vita, possiamo anche riuscire ad evitare di essere sempre e solo riceventi il male e lo sputo del mondo.
Basta un avvertimento,
una compagnia o un piccolo segno.
Basta una rana che capisca il lama,
dove va e quando va a colpire.
Basta forse anche solo entrare nell’ottica del lama,
e non vederlo solo da fuori, come il nostro avversario sputacchiere.
Ma, alla fine, tra sputo e sputo, chi ci colpisce son soprattutto gli umani, quelli che proprio dalla saliva un giorno furono fatti; e che con questa – fisica o morale – oggi si vanno distruggendo, armandosi di quegli sputi naturali che in modo artificiale, malizioso e diabolico vengono usati contro i più deboli.
 
“Mi ha sputato, ma non mi ha preso!” – mi dice la bimba, che a mo’ della rana, è balzata via dall’obiettivo prefissato dal lama.
 
 

La Flora


Allo zoo non stanno solo gli animali,
ma anche le piante.
Una zona tutta adibita a esse,
con piante e alberi e fiori di vario tipo.
“Te, che vuoi far la rana…questo per te è il tuo regno!” dico alla bimba.
“Mi piacerebbe abbracciare ognuna di queste piante!” dice lei.
“Abbracciarle!?” chiedo io meravigliato.
“Sì…sentirle vicine a me, più delle persone…” riprende.
 
A quel punto, comprendo dal mio e dal suo silenzio,
che le persone attorno a lei non le hanno dato grande affetto, anzi…
Forse quell’abbraccio desiderato per quelle piante lo avrebbe voluto dare a quelle persone – magari le più vicine a lei – o ricevere come segno di affetto.
E, dal come e da quel che ha detto, finora quell’affetto non c’è mai stato.
L’hanno piantata in asso, diremmo noi.
L’hanno abbandonata a se stessa.
E magari – e qui mi arrabbio veramente – al suo posto hanno messo piante, e piante, e verde attorno a loro, invece di piantarla con quel sistema, e cominciare ad amare un po’ più questa bimba…
Ma non voglio andare oltre in questa mia arrabbiatura,
perché rischierei di perdere io e di far perdere a lei questo giorno di serenità.
Certo, se la si piantasse con le piante e si cominciasse con le persone, non sarebbe meglio?
O no?...
 
La vedo ora assorta nel settore della flora,
ad ammirare le piante e i fiori.
“Che stai pensando?”…le domando.
“Penso di essere una rana che saltella ora qua ora là sulle piante, sulle foglie, sui fiori, e poi saltella nello stagno qui sotto, poi salta fuori all’improvviso e gioca ancora con tutto questo verde…” e me lo dice con un sorriso nostalgico, come sentisse la mancanza del vero amore tra le persone…
“Ti chiamo allora…Verderame…”
“Verde Rana!”…ribadisce lei rianimando il sorriso.
 
Una persona che ritenevo amica un giorno mi regalò una pianta.
L’ho messo sul terrazzo, la bagno ancora ogni giorno.
Ma la persona amica si è rivelata tutt’altro che tale,
e anche la pianta ha subìto uno, anzi due cambiamenti:
1. Le foglie son diventate brutte e secche, smangiate e sfregiate
2. La pianta si è innalzata superbamente su tutte le altre che ho sul terrazzo.
 
Venite a vedere, se non ci credete.
Le piante esprimono il nostro percorso umano…

 

All'Uscita


“Ti è piaciuta questa visita?...” le ho chiesto.
“Quando veniamo ancora?...” ribatte lei sorridendo gioiosa.
“Eh…vediamo…verremo ancora…un giorno… appena possiamo…”.
“Quali animali non abbiamo visto ancora bene?”…e mi invita a guardare sulla locandina.
“Vediamo…l’antilope…il ghepardo…il rinoceronte…il panda…il puma…la zebra…la tigre…l’aquila…il cigno, la cicogna, il gufo…il pavone e il pellicano…li vedremo…”.
“Quanti ancora da rivedere!...” e mi accenna al ritorno.
“Sì, sì…torniamo, non preoccuparti!” le confermo.
Mentre attraversiamo il negozio dei souvenir, si sofferma: “Compro una foto degli animali?”.
“Li vediamo ancora, quelli. Andiamo la al bar…io prendo una birra, tu magari un bel gelato…ok?”.
Sorride approvando.
 
Rientriamo nel mondo…animale o umano?
Anch’io dovrei assumere l’ottica della rana, imparando da lei, per poter distinguere quel che succede là fuori, e come affrontarlo, sgusciando ora qua ora là, tra i due mondi.
Balzando dal mondo animale a quello umano, la bimba fattasi rana mi ha suggerito la capacità che ognuno di noi ha di trasmigrare da un mondo all’altro, da un modo – cioè un’ottica - all’altro, con uno spirito distinto, con una mente che sa distinguere, con un cuore che sa amare anche ciò che sembra impossibilitato ad amare o ad essere amato.
 
Lo zoo ha accolto la rana in piena disponibilità, ha reso la bimba capace di stare nel mondo diverso, anche se ora, per questa sua diversità, il mondo di fuori non appieno la accetterà.
Essere tra due mondi se dà a noi nuove possibilità, dà anche agli altri la possibilità di rubarcele, di negarcele, di trafiggerci fino in fondo, di buttarci addosso tutti i pesi che non ci si vuole addossare e che vengono scaricati sulle spalle deboli e fragili di una rana o di una bimba che…che cosa volete che possano fare per salvare questo mondo?